Baricco a Scalfari: “Il mondo senza nome dei nuovi barbari”

di ALESSANDRO BARICCO
(tratto da www.repubblica.it, 21 settembre 2010)

CARO Eugenio Scalfari, vedo con soddisfazione che tutt’e due, pur di generazioni e radici diverse, abbiamo la stessa istintiva convinzione: è in corso una mutazione che non può essere spiegata con il normale affinarsi di una civiltà, ma sembra essere, più radicalmente, il tramonto di una civiltà e, forse, la nascita di un’altra. Bene. Non tutti hanno la stessa lucida convinzione e, secondo me, su questo abbiamo ragione noi.

Poi però le cose si ingarbugliano. E lo fanno su un punto che è fondamentale, e su cui ho visto molti irrigidirsi, proprio sulla base di quelle osservazioni che tu lucidamente raccogli e sintetizzi. E il punto è: barbarie e imbarbarimento (per usare le due categorie che usi tu, e che mi sembrano chiarissime).

Io quando penso ai barbari penso a gente come Larry Page e Sergey Brin (i due inventori di Google: avevano vent’anni e non avevano mai letto Flaubert) o Steve Jobs (tutto il mondo Apple e la tecnologia touch, tipicamente infantile) o Jimmy Wales (fondatore di Wikipedia, l’enciclopedia on line che ha ufficializzato il primato della velocità sull’esattezza). Quando penso agli imbarbariti penso, a costo di sembrare snob, alle folle che riempiono i centri commerciali o al pubblico dei reality show. Il fatto che i secondi usino abitualmente le tecnologie inventate dai primi non deve confondere le cose. Si tratta di due fenomeni diversi: né l’eventualità che Steve Jobs adori i reality show deve indurci a fare confusione.

Quando penso ai barbari penso a Diderot e D’Alembert (apparivano come barbari all’élite intellettuale dell’ancien régime) e quando penso agli imbarbariti penso al cascame di aristocratici che mentre nasceva l’Illuminismo ripetevano a vuoto i riti di un privilegio e di una ricchezza che in realtà non avevano più le energie per motivare e difendere. Quando penso ai barbari penso a Mozart (il Don Giovanni sembrò piuttosto barbaro all’Imperatore che lo pagò) e quando penso agli imbarbariti penso alle signorine aristocratiche che strimpellavano ottusamente sonatine di Salieri nei loro saloni cadenti. Voglio dire che una cosa è l’insorgere di modelli radicalmente innovativi e irrispettosi della tradizione, un’altra è il fisiologico disfarsi di una civiltà nell’ignoranza, nell’oblio, nella stanchezza e nel narcotico dei consumi. Di solito le grandi mutazioni scattano esattamente quando scattano simultaneamente i due fenomeni, e in modo spesso inestricabile. Da una parte una certa civiltà marcisce, dall’altra una nuova civiltà insorge (anche nel senso di ribellione). E’ lo spettacolo davanti a cui ci troviamo adesso: ma bisogna stare molto attenti a isolare, all’interno di un unico grande movimento, le due forze opposte che stanno lavorando.

L’imbarbarimento, di per sé, a me non risulta così interessante. Mi sembra un decorso fisiologico, già visto innumerevoli volte in passato, e oggi forse solo accelerato o reso più evidente dal moltiplicarsi delle informazioni e dalla abilità dei mercanti. Anche nel piccolo cortiletto della nostra Italia, assisto naturalmente allo sfarinarsi di una certa statura civile, di una certa tensione morale e di una certa tenuta culturale: ma mi chiedo se era poi tanto meglio l’Italia anni Cinquanta-Sessanta, dove una minoranza assoluta di persone coltivava un vivere alto e nobile ma la stragrande maggioranza degli italiani nemmeno aveva accesso ai consumi culturali, era sostanzialmente disinformata e quanto ai principi morali si doveva fare andar bene la predica in parrocchia. Non so. Ma comunque non riesco a preoccuparmi più di tanto.

La barbarie, invece, nel senso di Page, Brin e Jobs, quella mi affascina, e quella sì mi sembra degna di essere compresa. Ti cito loro tre, ma se solo sfogli, ad esempio, Wired ti accorgi che c’è tutto un iceberg sommerso di gente come loro, solo più nascosta, o meno geniale, o semplicemente non americana (per non arrivare, semplicemente, ai nostri figli, che sono in tutto e per tutto barbari).

Lì lo spettacolo è affascinante: sono persone a cui non manca l’intelligenza, che crede sinceramente di costruire un mondo migliore per i propri figli, che coltiva una certa idea di bellezza, che non disprezza affatto il passato, che domina le tecniche e che sostanzialmente ha una matrice umanistico-scientifica: eppure, nel momento di disegnare il futuro, se non addirittura il presente, non fa uso di strumenti che vengono dalla tradizione e fonda il loro ragionare e il loro fare su principi affatto nuovi che, alle volte, ottengono perfino l’effetto collaterale di distruggere, alla radice, interi patrimoni di sapere e di sensibilità che giacciono nel patrimonio condiviso dell’attuale civiltà. Di fronte a questo, io vedo lo sforzo immane di ricostruire un nuovo umanesimo a partire da premesse diverse, evidentemente più adatte al mondo com’è oggi: e cerco di capire: con fatica, ma cerco di capire. Cercando di non spaventarmi.

Quel che mi sembra di aver capito è che quella forma di barbarie genera inevitabilmente imbarbarimento ma anche, e simultaneamente, ricostruzione, e civiltà. Non potrebbe essere diversamente. D’altronde non giudichiamo il romanticismo dall’orrore delle poesiole romantiche che scrivono i quattordicenni, o dalla musica stucchevolmente romantica che decora film penosi, e nemmeno dalle lettere sdolcinate di una ragazzina francese del 1840 che si innamora dell’avvocatucolo del paese: giudichiamo il romanticismo a partire da Chopin, se mai, da Schelling, da una certa collettiva e fantastica iniziazione all’infinito, dalla scoperta collettiva di certi sentimenti, ecc, ecc. E allora perché dovremmo giudicare Steve Jobs dai messaggi sgrammaticati che la gente si scambia sui suoi Iphone? Perché non ci arrendiamo all’idea che l’imbarbarimento è una sorta di scarico chimico che la fabbrica del futuro non può fare a meno di produrre? Simili rifiuti li ha prodotti l’Illuminismo, e prima di allora l’Umanesimo, e prima di allora l’idea imperiale di Roma, e prima di allora…

Così mi viene istintivo non farmi distrarre dall’imbarbarimento, e di studiare la barbarie. E studiandola ho finito per arrivare a questo crocevia della profondità. Come ho anche scritto nell’articolo, è un punto abbastanza scioccante e non riesco a scriverne senza il timore di colpire a morte qualcosa di preziosissimo. E sono anche sicuro che tra un po’ di anni sarò in grado di scriverne meglio, con più precisione e più consapevolezza: ma intanto faccio tesoro di questa certezza intuitiva: il sistema di pensiero dei barbari sopprime il luogo e il mito della profondità.

Non elimina il senso, ma lo ridistribuisce su un campo aperto che solo per comodità definiamo ancora superficialità, ma che in realtà è una dimensione per cui non abbiamo ancora nomi, e che comunque ha poco a che fare con la superficialità intesa come limite, come soglia inattraversata del senso delle cose, come facciata semplicistica del mondo. In un certo senso potrei dire che il mondo di pensiero in cui si muove Steve Jobs (e mio figlio, 11 anni) sta a quello in cui siamo cresciuti noi due come il firmamento di Copernico sta a quello di Tolomeo (peraltro erano inesatti entrambi); o come Emma Bovary sta ad Andromaca.

Non ci sono meno stelle nel cielo di Copernico, né meno amore nella vita di Emma Bovary: ma sono il cielo e l’amore di un’umanità nuova, che lavorava con principi diversi, partiva da premesse inaspettate e andava ad abitare un paesaggio della mente e del cuore fino a quel momento vietato. Non c’erano nemmeno i nomi, in un primo momento, per pronunciare quel mondo nuovo: non abbiamo un nome noi adesso, per pronunciare l’asse su cui il senso è andato a disporsi, una volta sfarinata la dialettica di profondità e superficialità.
Tu dici: non diresti queste cose se tu, ancora, non fossi in grado di pensare e dire la profondità. E’ un’obbiezione che mi fanno in molti. Ed è molto logica. Ma a me rivela soprattutto quanto siamo già avanti nella strada, virtuosa, della barbarie. In realtà solo gente molto barbara può giudicare profondo il mio modo di pensare o scrivere: solo trent’anni fa sarebbe parso umiliante che si discettasse di cose del genere con questo livello di approssimazione, con un simile tipo di linguaggio, su uno strumento vile come un giornale, e lasciando parlare uno scrittore di successo. Solo quarant’anni fa questi dibattiti di idee si facevano nelle accademie, e li facevano i filosofi, gli antropologi, i sociologi. Come mai adesso loro tacciono, smarriti, e noi, scrittori-giornalisti, ci troviamo bene o male ad accompagnare la riflessione collettiva su temi così importanti su carta che l’indomani involtola l’insalata o su riviste che ci mettono in copertina tutti belli ritoccati, manco fossimo degli attori? Non lo senti lo stridio di qualcosa che non va? Non ti sembra che qualcosa che era nel profondo è risalito fino in superficie, per diventare domanda pronunciabile, e lì l’abbiamo incontrata noi, perché lì eravamo, già da un sacco di tempo, in superficie, non la superficie degli idioti, la superficie che è il luogo del senso, il luogo scelto da questo mondo per il senso? Non pretendo di convincerti, ma se ti devo dire sinceramente quel che penso è che la tua obbiezione andrebbe rovesciata: più di quanto tu non immagini, tu ti muovi in modo barbaro, hai il talento dei barbari, hai un’istintiva comprensione di dove scorre la corrente forte del senso, e per questo dialoghi con me, e non alzi semplicemente le spalle, pensando che dico cose superficiali. E la gente ti legge, e ti capisce, perché gli racconti la stessa ansia che hanno anche loro, cioè quella di poter essere barbari senza imbarbarire. E’ il problema dei più, oggi, il problema della gente di buona volontà. Sentono di essere ormai oltre una certa civiltà, ma non vogliono essere peggiori. In un certo senso, tu, io, e tutti loro, mi sembriamo davvero il Kublai Khan timoroso delle Città Invisibili. Era di stirpe mongola, lui: era esattamente un barbaro che era sceso a distruggere l’altissima ed eterna civiltà cinese e se ne era appropriato. Seduto sul trono, di fronte a un mercante (non a un filosofo), formula la domanda: com’è il mio impero? Non aveva una risposta, e la cercava.
Per cui, certo, la nostra battaglia è contro l’imbarbarimento: non penso di aver fatto una sola cosa, nella mia vita professionale, senza pensare, anche, ad arginare un certo imbarbarimento. Credo che la stessa cosa si possa dire di te. Ma per quanto mi riguarda, altrettanto importante mi pare non scambiare questa battaglia con una dannosa resistenza alla barbarie, intesa come intrusione del radicalmente nuovo, come forza della mutazione, e come metamorfosi ultima dell’intelligenza. Pur con una certa fatica, mi sforzo di non confondere le due cose, e nemmeno la certezza di sbagliarmi spesso riesce a farmi disamorare di questo compito, e di questo piacere.

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