Il viaggio come empatia

(tratto da un saggio breve
del gennaio 2008)

Cos’è viaggio, viene da dire. È forse il rifugio da quella vorticosa bufera che è la vita quotidiana, frenetica e malata? Sì, la nostra concezione del “viaggiare” sembra aver preso questa piega. Viene rappresentata, neanche troppo caricaturalmente, da Cortazar nelle “Storie di cronopios e di fama”: eccoli, tre turisti come tanti – atteggiamento borghese e snob – preoccupati più dell’effimero e della carne che dello spirito. Ed ecco che il viaggio diventa mezzo: torneranno dopo due settimane di quello che credono essere un’anti-stress e diranno a tutti di aver fatto un’esperienza magnifica. Poverini!
No, il viaggio è innanzitutto passione. È l’entusiasmo di un bambino che legge di altri posti, di altri prati, di altri mari. È la contemplazione del protagonista di “Cuore di tenebra” di fronte a una carta geografica quando sognante punta il dito e dice: “Da grande ci andrò”. Eccola lì, l’istanza di ricerca, di scoperta, quell’istinto primo che rende l’uomo tale. Enea stesso, giunto al termine del suo ampio travaglio in terra e in mare, “scopre” un’ampia foresta e poi il Tevere. Come il filosofo sempre pronto a stupirsi che si scrolla di dosso preconcetti e pregiudizi al fine di cogliere la realtà con uno sguardo più nitido e obiettivo, allo stesso modo il viaggiatore deve avere la capacità di meravigliarsi e l’umiltà di “annullare” se stesso per comprendere meglio gli altri. Va bene l’entrare in una città ed errare per essa (a mo’ di Odisseo!) alla scoperta indifferenziata delle sue bellezze, osservare le persone, “attaccare bottone” con qualche vecchietto in nome di quella comprensione di cui sopra. Il viaggio non è solo scoperta ma anche “riscoperta”, diceva Moravia riferendosi all’Africa, “quel continente in cui il rapporto tra uomo e natura non è mediato dalla storia”. È chiaro che frasi come questa non vengono fuori dalla crociera sul Nilo (emblema della vacanza tipo) bensì da seicento chilometri percorsi sulla Land Rover in una sola giornata tra la savana e il deserto, ad esempio. Riscoperta è quella dell’India, opera di molti giovani che negli anni settanta vollero cercare quelle “esperienze diverse” in quel Paese lontano e con una cultura così tremendamente lontana dalla nostra. Quelli furono gli stessi giovani che sognarono Capo Nord e i Paesi scandinavi (vedi “La meglio gioventù” di Marco Tullio Giordana). Saranno stati i versi di Dino Campana ad ispirarli, quelle navi verso l’inquieto mare notturno che facevano assaporare ogni istante della partenza? Altro che aerei…
Sono sempre più convinto che sia una questione di sensibilità. Il viaggiatore è chi partecipa empaticamente delle storie di uomini, quindi delle sofferenze e della coscienza civile di un popolo: il viaggio come empatia, ma anche come “compatimento” nel senso etimologico del termine. L’arricchimento viene proprio dall’incontro dialettico tra l’uomo viaggiatore e le persone, la cultura, i costumi e le tradizioni che egli viene a conoscere: “ciò che vediamo non è ciò che vediamo ma ciò che siamo”.
Troppo oltre. Basterebbe farsi cogliere dalla poesia, dalla bellezza. Ecco cos’è viaggio: una fanciulla delle razza nuova, occhi lucenti e le vesti al vento!

P.F.

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