Verso l’infinito e oltre. Così nacque la Pixar

(tratto da www.repubblica.it, 16 dicembre 2011)

Nel 1986 il fondatore di Apple, a quell’epoca defenestrato dalla sua creatura, acquista della divisione informatica della Lucas Film. Dai primi primi demo di “cartoon” fino ai successi che hanno rivoluzionato, con l’uso della computer grafica, l’intero mondo dei “cartoon”. Il capitolo è tratto dal libro “Steve Jobs – Affamati e Folli” di Federico Mello, Aliberti editore

È il 1985 e Steve Jobs è venuto a sapere che George Lucas, il regista di Guerre Stellari ha messo in vendita il reparto informatico della sua casa di produzione, dove si sperimenta l’uso della computer grafica e dell’animazione digitale. Con la sua nota curiosità, Jobs si reca a fare visita negli studi di animazione di Lucas e ancora una volta capisce che si trova davanti al futuro, un futuro che ha anche un mercato tutto da esplorare. Jobs ai tempi è a Apple – ancora per poco – giudica esosa la richiesta di Lucas, che ammonta a 30 milioni di dollari. Nel volgere di appena un anno, Steve è fuori da Cupertino e agli esordi della sua Next, mentre a Lucas sono saltate alcune trattative. Un accordo tra il genio dei computer e il genio della fantascienza viene finalmente trovato: per 10 milioni di dollari l’uomo della Mela si porta a casa i laboratori della Lucas Film.

Jobs resta un po’ a lambiccarsi su come chiamare il suo giocattolo. Deve essere qualcosa di efficace e di ficcante, qualcosa tipo laser, o pixel, o forse… “pixer”; no, no! Meglio qualcosa di più spagnoleggiante tipo… “Pixar”. Ecco, Pixar! E Pixar sia. Con questo acquisto Jobs può avvalersi di hardware e software all’avanguardia per la produzione di immagini digitali, ma soprattutto di tre geni del campo: John Lasseter, ex dipendente Disney, Alvy Ray Smith, ingegnere elettronico e Ed Catmull, che già nel 1973 aveva realizzato un’animazione in 3D grazie a un software di sua invenzione.

Nonostante le speranze, quello che era sembrato un buon affare, si trasforma in realtà in un burrone che fagocita denaro senza restituire nulla in cambio. Ed, John e Alvy, inoltre, hanno trovato la “chiave” per decriptare Jobs e fuggire da quello che negli anni è stato definito il suo “campo di distorsione della realtà”: sono tra i pochi che, mescolando accondiscendenza e furbizia, riescono a resistere al suo ego dispotico tenendolo lontano – anche fisicamente – dalla loro creatura e riuscendo a non fargli mettere troppo il becco nei loro affari. A differenza della Next, dove Jobs fa il bello e il cattivo tempo, alla Pixar si diffonde una cultura aziendale “da cartoni animati” con un clima generale giocoso e creativo, orizzontale e rilassato.

L’idea di Jobs per Pixar, tra l’altro, non è troppo diversa da quella Next: per lui, da sempre innamorato di hardware, l’azienda deve sfornare computer, questa volta grossi mainframe pensati per archiviare e modificare immagini ad alta definizione: una macchina, per esempio, da vendere ai laboratori di radiografie. Le animazioni vere e proprie, quelle che il trio creativo a capo della Pixar hanno come scopo, servono al massimo per dimostrare le capacità dei software dell’azienda.
Dopo tre mesi dall’acquisto di Jobs, Pixar vende già il suo “Pixar Image Computer”, una macchina che tra software e hardware costa la bellezza di 150 mila dollari. Non solo il prezzo è esorbitante, ma il software per quanto all’avanguardia, è incredibilmente difficile da usare: a poco sono valsi gli sforzi degli ingegneri, l’Image Computer è ancora solo e soltanto una macchina ultraspecialistica; dopo due anni, alla fine del 1988, ne sono stati venduti in tutto appena 120 esemplari e l’azienda, che intanto è passata da quaranta a oltre cento dipendenti, fagocita 10 milioni di dollari all’anno.

Con uno dei suoi classici atti di crudeltà Jobs obbliga Ed e Alvy a restituirgli il 4 per cento delle azioni che ognuno dei due possiede: questa la condizione per continuare a garantire presso le banche una linea di credito alla Pixar. I due creativi, però, non se ne fanno un cruccio: per loro è importante avanzare sulla loro strada, quella dell’animazione, un settore fino ad allora marginale per l’azienda – coinvolge solo cinque dipendenti guidati da John Lasseter – e più volte a rischio chiusura per mano di Jobs che lo ritiene del tutto secondario rispetto al core business di vendere computer e software.

L’anno successivo, visti i risultati deludenti, Jobs si decide a prendere per Pixar una decisione che ancora non è riuscito a prendere per Next: abolire la produzione di hardware per concentrarsi unicamente su quella del software. Ne fanno le spese oltre sessanta dipendenti e ciò non è comunque sufficiente a risollevare le sorti dell’azienda. Steve è convinto che “le persone siano in grado di fare grandi cose se vengono dotate di grandi strumenti”, ma in questo caso il “Pixar Image Computer” è davvero troppo “grande” per andare al popolo come avevano fatto l’Apple II e il Mac: se a una persona qualsiasi dai una Ferrari da Formula Uno, è difficile che tiri fuori alla guida tutto il suo talento inespresso, è molto più probabile che si vada a stampare sul primo muro che incontra per strada.

I computer per la grafica, comunque, non li vuole nessuno. Ma dove c’è talento, gli eventi possono prendere una piega inaspettata. E gli animatori capitanati da Lasseter, sono diventati intanto un vero e proprio mito negli ambienti dell’animazione. È dagli anni Settanta che il gruppo di creativi coltiva un sogno: realizzare un intero film, un lungometraggio, con le tecniche di animazione digitale. Questo obiettivo appare impossibile da raggiungere. Le immagini richiedono importanti quantità di calcolo e di memoria per essere archiviate e manipolate al computer e, quando Lasseter, Catmull e Alvy Ray Smith hanno cominciato a muovere i primi passi nel campo della grafica computerizzata, si stima un miliardo di dollari il costo di un intero film: una cifra stratosferica se si pensa che, mediamente, una pellicola animata “vecchio stile” costava cinquanta volte meno.

Ma i tre sanno anche di avere un alleato seduto al loro fianco: il tempo. Secondo la legge di Moore, quella che aveva previsto un raddoppio della capacità di calcolo, a parità di spesa, ogni 18 mesi, nel giro di una decina d’anni il costo di quelle elaborazioni computerizzate scenderà di molto, trasformando quello che era solo e soltanto un sogno, in realtà, ovvero in un film. E pian piano, fin dagli anni Ottanta, questa meta appare sempre più a portata di mano.

Alle meraviglie tecnologiche di cui sono capaci i software Pixar, John ha aggiunto un particolare talento nel raccontare storie. Ai tempi le animazioni computerizzate vengono utilizzate per mostrare avanzamenti tecnologici, non per fare film. Quando Pixar si presenta a eventi come il Siggraph, invece, una fiera che dal 1974 raccoglie il meglio sulla piazza mondiale delle tecniche di grafica interattiva, tutti rimangono a bocca aperta. Al Siggraph del 1986 Lasseter ha fatto scalpore con un breve video, Luxo Jr, realizzato ispirandosi a un lampada, la Luxo appunto, che ha sulla scrivania. Nel cortometraggio, che dura appena due minuti, una Luxo “padre” resa “viva” dai movimenti progettati al computer, è alle prese con una Luxo “figlio” che rincorre una piccola pallina di gomma, la raggiunge, ci salta più volte sopra e la sgonfia sotto la sua base. Quando la piccola lampada appare triste e dispiaciuta per la perdita del trastullo, ecco che entra in campo un’altra palla di gomma molto più grande della precedente e il gioco ricomincia: “l’espressione” della lampada “padre”, prima sconsolata e poi rivolta dritta verso l’obiettivo, è così realistica da coinvolgere emotivamente lo spettatore.

Questo corto proietta la Pixar nell’olimpo della creatività – tanto che la Luxo rimarrà la “mascotte” dell’azienda – e così accade a un altro cortometraggio presentato nel 1989, Tin Toy, che è molto più elaborato e racconta la storia di un piccolo “tamburino di latta” alle prese con un bambino dispettoso. Il bimbo ha delle fattezze ancora stilizzate (dare vita con il computer a volti umani è la parte più difficile dell’animazione, e lo stesso Lasseter ammetterà in seguito di non essere soddisfatto delle espressioni del piccolo protagonista), ma il mondo di giocattoli spaventati dal padrone dispotico è così realistico da conquistare le platee di addetti ai lavori e di aggiudicarsi l’Oscar per il miglior film breve di animazione.

Ancora, però, dal punto di vista economico, tutto ciò è poco più di un gioco. Le animazioni sanciscono il successo creativo di Pixar e vengono utilizzate per realizzare alcuni spot per conto terzi. Ma dal punto di vista finanziario è una catastrofe. Fino al 1990, in soli quattro anni, Pixar ha dilapidato 60 milioni di dollari e questa montagna di soldi, sommata ai 12 milioni di dollari risucchiati dalla Next, costituisce tre quarti del patrimonio con cui Jobs è uscito da Apple. Per lui
non si prospetta certo lo spettro della povertà, ma per un uomo che vuole riscattare la sua cacciata e dimostrare una volta per tutte che è in grado, da solo, di cambiare il mondo, non è certo un buon risultato. Alvy Ray Smith, che fin dall’inizio è stato uno dei tre protagonisti del gruppo creativo Pixar, decide di lanciare una sua azienda. Steve, segnato dai fallimenti e addolcito quantomeno dalle gioie familiari, non lo trattiene né si preoccupa di un eventuale concorrente, piuttosto decide di finanziare con i suoi soldi il 10 per cento della nuova azienda di Alvy. Ma il barbuto creativo dal passato hippie ha fatto male i suoi conti. Se “la notte è più buia subito prima dell’alba” questo è vero anche per Jobs. Quando tutto sembra andare storto, ecco che una novità importante cambia le carte in tavola. Pixar, come un gruppo di bambini che ha del tempo libero da passare prima che i genitori tornino dal lavoro, è riuscita a strappare alla mastodontica Disney – l’Ibm dell’animazione – la “colorazione” computerizzata dei bozzetti realizzati dagli animatori dalla casa de La sirenetta e Alladin.

E quando le cose all’azienda di Jobs sembrano andare a rotoli, anche la Disney fa sapere che è pronta a interrompere l’accordo di collaborazione con Pixar. E proprio ora, nel momento più cupo, in cui tutto va storto e tutto sembra ormai perduto, che si vede la stoffa del campione: o riesce a invertire la rotta, o è destinato a perire. Steve, come un abile giocatore di scacchi, avvia una serie di incontri con Warner Bros e Paramount, storici concorrenti di Disney. Questi summit fintamente clandestini, ai quali Jobs ha dato sapientemente il massimo risalto pubblico, nel quartier generale Disney fanno scattare un campanello d’allarme che in realtà ha il fragore di una sirena antincendio. Una cosa è una Pixar marginalizzata, tutt’altro una Pixar al soldo dei rivali. Dalla Disney chiamano Jobs e gli propongono un accordo: loro si offrono di finanziare un intero film Pixar e di pagarne le spese, intascando l’87,5 per cento dei profitti; il resto rimarrà all’azienda di Jobs: il contratto avrebbe valore per sette anni per un totale di tre film. L’accordo è tutt’altro che vantaggioso per Pixar, ma in ballo c’è una collaborazione con il colosso mondiale dell’animazione. E poi il sogno di Alvy ed Ed si può finalmente avverare: nel 1991 i micro-processori, i banchi di memoria, i monitor e i software hanno fatto tanti di quei passi in avanti che il costo di un film di animazione è accessibile.

Il film, che sarà diretto da John Lasseter, verterà sulla sua passione di sempre: i giocattoli e, nella migliore tradizione Disney, avrà come protagonista un gruppo di amici alle prese con sfide e avventure. Il titolo non può essere che quello: Toy Story. Per la realizzazione del film si utilizzano tecniche inimmaginabili solo qualche anno prima. Da una parte è fondamentale l’apporto della grafica computerizzata per realizzare il giusto gioco di luci che dia profondità alla pellicola. Lo spiega bene, ancora una volta, Alan Deutschman: “La tecnica di base dell’animazione consisteva nel simulare i complessi effetti della luce, riflessa in ogni piccolo interstizio, angolo o curva di un oggetto. Essenzialmente era quello che facevano i maestri del Settecento nel creare le loro composizioni così straordinariamente simili al vero, è questa ancora oggi la chiave per dare a un’immagine piatta l’effetto della profondità”. L’informatica, però, cambiava tutto: “Il computer avrebbe potuto simulare la proiezione di un raggio di luce su una zona minuscola della superficie dell’oggetto (che gli animatori definivano come “poligono”). Più alto era il numero delle simulazioni, più alto era il numero dei poligoni, migliore risultava la definizione dell’immagine. Per rappresentare un oggetto dalle superfici piane – un cubo per esempio – potevano bastare alcune dozzine di poligoni. Una figura variegata e complessa come un volto umano, per poter apparire realistica, avrebbe richiesto che la luce venisse riflessa da miliardi di poligoni”.

L’altra questione spinosa riguarda la tecnologia che serve a dare vita alle espressioni antropomorfe dei personaggi. Oltre cento persone e una trentina di animatori (comunque molti meno di quelli impiegati per Il Re Leone) si mettono al lavoro seguendo le indicazioni di Lasseter: “Ci siamo impegnati molto – spiegherà in un’intervista – per far apparire le cose più “biologiche” possibile. Abbiamo dovuto creare ogni singola foglia e filo d’erba”. Per tutto il “cast” del film, vengono usati oltre quattrocento modelli computerizzati e per ognuno dei protagonisti vengono programmate le varie tipologie di movimento, le espressioni facciali e motorie: ogni personaggio potrà saltare, parlare, ridere, volare, camminare. Woody, per esempio, il cow-boy protagonista, può compiere oltre settecento movimenti e di questi duecento sono concentrati sul volto e cinquanta solo sulla bocca.

Dopo questo lavoro preparatorio, ogni movimento di ogni personaggio viene inserito nello storyboard, vengono creati gli sfondi e il contesto e il film viene infine renderizzato, doppiato e musicato. Il contributo di Steve Jobs a tutto ciò – compreso un aggiustamento in corso della trama per addolcire il personaggio di Woody, considerato troppo serio e petulante – è minimo. John, che segue il progetto, gli illustra alcuni particolari, gli fa ascoltare le musiche e i brani originali del film. Ma quando Steve se ne esce con qualcuno dei suoi commenti sprezzanti, fa buon viso a cattivo gioco. Finalmente si arriva alla conferenza di lancio del film, per la quale la Disney ha allestito un’enorme “tenda” al Central Park di New York ospitando per la prima volta i protagonisti di Toy Story nel pantheon abitato da Topolino e Biancaneve (gigantografie comprese).

Durante la proiezione di una scena (quella dei soldatini che partono in esplorazione per la casa portandosi dietro una radiotrasmittente per comunicare ai compagni quali nuovi giocattoli stiano per fare il loro ingresso nel gruppo) Jobs capisce che quello che credeva il suo “hobby” è in realtà qualcosa di sconvolgente, una novità enorme la cui “onda lunga” si espanderà nel mercato dell’animazione per anni. Il suo nome, seppur defilato, è presente: compare nei titoli di testa alla voce “produttore esecutivo” con Ed Catmull. Quando il film, il giorno del ringraziamento del 1996, esce finalmente nelle sale, il successo è travolgente. Secondo il sito Mediacritic, che tiene traccia delle critiche apparse sui grandi media, al film viene dato un voto medio di 92 su 100; per il sito Rotten Tomatoes, un aggregatore di recensioni, il cento per cento dei critici, su un totale di 74 giudizi, esprime un voto positivo. Per “Time” Toy Story è “il film più creativo e originale dell’anno”; per le riviste specializzate, sfonda una porta ancora chiusa: quella di appassionare tanto i grandi quanto i piccini – e questa rimarrà una caratteristica dei film Pixar.

La risposta del botteghino è altrettanto entusiasmante. Nel primi cinque giorni nelle sale di Usa e Canada, Toy Story incassa 39 milioni di dollari e rimane primo in classifica per alcune settimane. Alla fine, solo nelle sale, raccoglierà 170 milioni di dollari in Nord America e 360 milioni nel mondo; a queste cifre bisogna aggiungere l’indotto in termini di vhs merchandising e videogame. Toy story collezionerà quattro premi Oscar di cui uno a John Lasseter: è lo Special Achievement, premio speciale assegnato solo agli innovatori del cinema.

È un successo storico. E Steve Jobs ne è investito in pieno. Certo, non è stato lui il motore di questa nuova sfida, e non è lui il creativo artefice dell’incredibile avventura del gruppo di giocattoli, ma al cospetto di una vita che stava andando a rotoli, Toy Story è una boccata di ottimismo – e di risorse – che lo rimette in vita. “Verso l’infinito e oltre” è l’esortazione del Buzz Lightyear nel film: a quel grido, attaccato al suo amico cosmonauta in lungo volo per ricongiungersi con gli amici giocattoli, si unisce anche il cow-boy Woody in una delle sequenze finali della pellicola; anche Steve Jobs sembra rimettersi sulla rampa di lancio, decollare e prendere il volo verso l’infinito e oltre.

E poi, quel geniaccio di Steve ha progettato le cose per bene e, da uomo che non improvvisa mai, ha in testa un piano per spiazzare un’altra volta tutti. Se non è lui l’anima di Toy Story, è pur sempre il proprietario della casa di produzione che lo ha realizzato. E in quel periodo sta accadendo qualcosa di nuovo e inaspettato in America, sta emergendo un’economia che i giornalisti chiamano “New Economy”. Nell’agosto del 1995, solo qualche mese prima dell’uscita di Toy Story, la società Netscape, che ha realizzato uno dei primi browser per navigare su Internet, è andata in Borsa riscuotendo un successo tanto clamoroso quanto inaspettato. Partite da 14 dollari, le azioni sono balzate a 28 dollari appena aperte le contrattazioni, per poi schizzare fino a 75 dollari e chiudere a 60. Una marea di denaro sta montando intorno ai chip: Internet è alle porte e tutto ciò che è tecnologia e innovazione vale più dell’oro. Steve lo capisce e mette la sua fiche sul piatto.

Con una mossa da manager provetto – come non è mai stato ufficialmente riconosciuto dai suoi colleghi informatici – progetta lo sbarco in Borsa della Pixar, anche se molti lo sconsigliano ritenendo il passo prematuro. Figurarsi se lui si spaventa: con un tempismo da manuale, programma l’offerta pubblica di acquisto della Pixar per il 29 novembre 1995, esattamente una settimana dopo l’uscita negli Usa di Toy Story. Ancora una volta, vuoi per timore di rimanere in minoranza come era successo ad Apple, vuoi per la solita ritrosia che lo ha contraddistinto in simili occasioni, fa in modo che solo cinque dipendenti Pixar si avvantaggino dell’immensa ricchezza che sta per arrivare da Wall Street. I cinque sono lui stesso, che mantiene il controllo dell’80 per cento delle azioni; John Lasseter; Ed Catmull, che ha dato un contributo fondamentale allo sviluppo di RenderMan, il software per l’animazione e la renderizzazione oggi ancora in vendita sul sito Pixar; il designer-grafico Ralph Guggenheim, che fa parte del gruppo sin dagli inizi; e il direttore tecnico di Toy Story, Bill Reeves. Gli altri 140 dipendenti resteranno a bocca asciutta, e questa volta non c’è nessun Woz che possa cedere le sue azioni a prezzo di favore.

Sulla scorta del successo del film, anche l’offerta pubblica iniziale è da brividi. Il progetto iniziale è di mettere sul mercato le azioni a 12 dollari l’una, Steve però si impunta e preme affinché si mettano sul piatto altri dieci dollari: il prezzo di apertura viene stabilito a 22 dollari. All’apertura della Borsa, dopo mezz’ora di contrattazioni il valore di un’azione Pixar è già schizzato a 49 dollari per chiudere a fine giornata a 39. Con le sue 800 mila azioni John Lasseter si ritrova a “valere” quasi 31 milioni di dollari. Noccioline. Con i suoi 30 milioni di azioni, dopo aver dilapidato tre quarti dei 100 milioni di dollari con i quali era uscito da Apple, Steve Jobs diventa titolare di una ricchezza pari a 1170 milioni di dollari. Il grande ritorno. L’uomo che riesce a conquistare ogni settore del mercato titola la rivista “Success” con un primo piano di Steve in copertina, che ai tempi aveva dei capelli a simil-caschetto e degli occhiali tondi alla Harry Potter.

Steve, non c’è più dubbio, è tornato. Prova ne sia il fatto che riesce a rinegoziare il contratto con Disney: i film da fare insieme diventano cinque, solo che questa volta, sia le spese che i ricavi, saranno divisi a metà tra le due aziende. Non finisce qui, naturalmente: quando la valanga del successo comincia a rotolare giù dal costone della vita, niente può più fermarla. Jobs viene a sapere che alla Next, ormai ridotta ai minimi termini, alcuni suoi collaboratori hanno avviato dei colloqui informali per vendere il sistema operativo Nextstep. L’azienda interessata a comprare è un “mito” del capitalismo americano, diventata anni prima ricchissima vendendo personal computer anche se adesso, a causa di Microsoft, vive una crisi profonda: da poco è stato dato il ben servito al suo “storico” amministratore delegato, John Sculley. Eh sì, ladies and gentleman, è proprio lei, la “principessa” di Steve: Apple.

Le cose precipitano velocemente, Jobs viene a sapere delle trattative in corso solo quando sono già a uno stadio piuttosto avanzato. La notizia esce sul “Wall Street Journal”, l’hipe, l’incredibile interesse sul possibile ritorno a casa di Steve, è enorme. Jobs scalpita, muore dalla voglia di riprendersi la sua Mela, ma adesso è in una posizione di estrema forza e ricchezza. “Per me, nella vita, le cose che contano di più sono la Pixar e la mia famiglia – dirà – e non voglio deludere nessuna delle due”. L’accordo va in porto. Per comprare il sistema operativo Next, Apple sborsa una cifra esorbitante: 430 milioni di dollari, una catena montuosa di denaro per un’azienda che ha venduto pochissimi computer. Ma il prezzo è un affare, ne sono convinti tutti, perché assieme al sistema operativo, Cupertino compra anche l’ingegno di un uomo che sta per compiere 42 anni e che ha ancora tantissimo da dare. Ufficialmente Steve Jobs ad Apple sarà solo un “consulente”. Ma tutti sanno bene che finché la salute gli assicurerà la forza e il coraggio che non gli sono mai mancati, un solo obiettivo continua a rimbombare nella sua testa. Cambiare il mondo.

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